1992. Per l’Italia, probabilmente, l’anno più delicato della sua storia recente.

Un Paese disorientato, in piena crisi d’identità e che nel corso di quei 365 giorni vedrà cadere di colpo un’intera classe politica e tutte le sue maschere.

Monetine, processi, attentati. Ciò che pareva bellissimo diventa, all’improvviso, fosco e malvagio.

Una picchiata che lascia strascichi anche nello sport. Le Notti Magiche sono finite da tempo e la Nazionale di Vicini non è riuscita nemmeno a qualificarsi per gli Europei in Svezia, fermata da un palo colpito da Rizzitelli nel gelo di Mosca.

Gli appassionati guardano alle Olimpiadi invernali di Albertville per tifare Alberto Tomba, taluni si interessano alle cavalcate europee di Sampdoria, Torino e Genoa, pochi ricordano ancora le gesta del Camerun e nessuno (o quasi) è a conoscenza che a Dakar, oltre ad una corsa di rally, è in pieno svolgimento un torneo di calcio.

Nel Continente Nero

Tutto è partito da quella planata di François Omam-Biyik a San Siro, contro l’Argentina Campione del Mondo di Maradona, ed è proseguito con gli slalom di Cyrille Makanaky, le parate di Thomas N’Kono e i gol e le danze da parte di Roger Milla.

Il cammino dei Leoni Indomabili a Italia ’90 aveva entusiasmato tutti, rapiti dalla velocità e dalla spensieratezza di quei giocatori semisconosciuti sempre sorridenti ed appartenenti ad un Continente che prima di allora aveva detto nulla o quasi, a livello calcistico.

Da quel momento, le partenze di osservatori e dirigenti dagli aeroporti più importanti d’Europa crescono a dismisura, alla frenetica ricerca di giovani talenti da provinare ed eventualmente ingaggiare per pochi spiccioli.

Dagli scali italiani, invece, poca roba. Ci aveva provato nei primi anni Ottanta l’Ascoli di Costantino Rozzi, con l’ivoriano François Zahoui, e ci ha provato Luciano Moggi (in qualità di dirigente del Torino) portando sotto la Mole tre ragazzini ghanesi: Mohammed Gargo, Emmanuel Duah e Samuel Kuffour. Solo l’ultimo ha fatto una carriera da campione; a dimostrazione che pescare lì, non è poi così facile.

D’altronde l’Africa nel 1992 è un cantiere aperto, pieno di contraddizioni e ancora troppo condizionato dalla povertà.

Le diatribe tra calciatori e dirigenti per quanto concerne i premi partita sono all’ordine del giorno e la mancanza di veri professionisti nel settore rende tutto improvvisato ed estremamente instabile. Come l’ingaggio di tecnici stranieri di dubbia fama a cifre faraoniche oppure l’assenza di rigore nell’organizzare competizioni di un certo livello, tra corruzione e ingerenza continua dei politici negli affari di sport.

E in Senegal, in quel meraviglioso Paese affacciato sull’Atlantico chiamato ad ospitare l’edizione numero 18 della Coppa d’Africa, oltre all’assenza dei centri stampa, le squadre alloggiano in alberghi sporchi e fatiscenti.

Senegal ’92

Una Coppa allargata nel formato e pronta a scrivere un nuovo capitolo, dopo il destro preciso da fuori area di Cherif Oudjani che aveva deciso l’edizione del 1990 e fatto esplodere di gioia i 100mila spettatori assiepati al “5 Luglio” di Algeri.

Che il calcio africano abbia iniziato ad esportare giocatori, lo si capisce anche dalle liste dei convocati: ben 89 giocatori su 264 provengono dai campionati europei, ai quali va aggiunto il portiere David Chabala (quello di Zambia-Italia alle Olimpiadi di Seoul ’88), in forza all’Argentinos Juniors.

Le favorite sono più o meno le solite: Camerun, Nigeria, Ghana… e le stelle più luminose si conoscono tutte: Abedì Pelé dell’Olympique Marsiglia, Tony Yeboah dell’Eintracht Francoforte, Joseph Bell del Saint-Etienne, Kalusha Bwalya dello Zambia, Youssouf Fofana del Monaco, Jules Bocandé del Lens, Aziz Bouderbala del Lione.

Il Paese della Teranga vive la sua “prima volta” con entusiasmo. Per le strade terrose e dissestate si respira calcio 24 ore su 24 e pazienza se i prezzi dei biglietti sono alle stelle e i Leoni non siano compresi nel novero delle favorite.

Mercoledì 12 gennaio Abdou Diouf, Presidente del Senegal, inaugura la competizione, stringendo le mani dei giocatori di Camerun e Marocco prima di accoccolarsi in tribuna su una poltrona di pelle scortato da un manipolo di militari al suo servizio. Si chiama stadio dell’Amicizia, quella cattedrale da 60mila posti issata a Dakar solo sei anni prima, ma è quello più esotico di Ziguinchor – senza curve e dal quale si possono osservare palme e tramonti in lontananza – a rappresentare il fiore all’occhiello per i romantici calciofili.

Le panchine sono sostanzialmente delle sedie piantate sulla sabbia, le righe del campo sono storte e tracciate col gesso e le zolle disseminate ovunque fanno rimbalzare, più che rotolare, il pallone.

Danze, suoni dei tamburi e canti tribali accompagnano le partite tra mille colori e un caldo infernale.

Ma la Coppa d’Africa è anche arcaismo e superstizione.

I padroni di casa ad esempio, attribuiscono le colpe dell’eliminazione nei quarti di finale ad una donna – la moglie del c.t. camerunense Philippe Redon – rea di esser scesa negli spogliatoi a salutare il connazionale Claude Le Roy (C.T. del Senegal) prima del fischio d’inizio.

Ne nasce un parapiglia sotto gli occhi increduli dell’arbitro, il giapponese Kiichiro Tachi.

Sogno ivoriano

Les Éléphants, quel trofeo, l’hanno sfiorato più volte. Sono arrivati terzi nel 1965 in Tunisia, terzi tre anni dopo in Etiopia e ancora una volta terzi, nel 1986, in Egitto. Forti di un antico proverbio africano «Il sole magari fa tardi, ma non dimentica nessun villaggio», trascorrono parte della loro preparazione atletica in Portogallo, trovando però raramente campi di allenamento disponibili.

Fofana e compagni si esercitano dunque sul prato dell’hotel che li ospita o in spiaggia, combattendo anche le ingerenze del governo che spingeva per esautorare Yeo Martial in favore del più quotato Philippe Troussier.

Gli arancioni vogliono provare a crederci stringendosi attorno all’allenatore e al portiere, il venticinquenne Alain Gouaméné del Raja Casablanca.

Alain chiude la saracinesca a tutti, esibendosi in parate prodigiose: Algeria (3-0), Congo (0-0), Zambia (1-0). In semifinale va oltre, mantenendo la porta inviolata per 120′ e neutralizzando tre rigori al Camerun (praticamente un record!).

Nell’atto conclusivo si troverà di fronte il Ghana, la Nazionale con cui ha condiviso il ritiro e la vigilia della finale e, probabilmente, la Nazionale che ha scoperto il suo segreto.

Coppa Africa 1992

Il segreto di Gouaméné

Mercoledì 26 gennaio 1992, al Friendship Stadium, i quattro volte Campioni d’Africa appaiono turbati, paralizzati, avvolti da un’inspiegabile apprensione.

A pochi minuti dalla finale, le attenzioni dei compagni di Abedi Pelé sono tutte polarizzate su un oggetto. Un misterioso sacchetto bianco che Alain Gouaméné posiziona in fondo alla rete prima di ogni partita.

«Ho visto fin dall’inizio che i ghanesi avevano paura della mia borsa. Ma non c’era niente, assicura l’uomo vestito con pantaloni lunghi neri e maglione grigio tappezzato da inserti colorati.

Tuttavia i ghanesi hanno esasperato la cosa, chiamando perfino l’arbitro: “La borsa, la borsa, fuori dalla rete!”. Non sono uno stregone, ho detto loro: “Ecco, apritelo”.

Poi indietreggiarono, come se potessero bruciarsi le dita».

La finale più lunga

Lo spettacolo di quella finale è davvero modesto, condizionato dalla paura di perdere e, forse, dall’assenza delle rispettive stelle Pelé (squalificato) e Fofana.

Il nutrito pubblico sugli spalti – in buona parte ghanese – trova comunque modo di fare festa nonostante in campo succeda poco e il caldo asfissiante impedisca di ragionare.

coppa africa 1992 2

In Italia, la sintesi televisiva della gara, prevista nella seconda serata di Raidue, commentata da Carlo Nesti, attacca direttamente dal sorteggio per capire chi sarà a cominciare la lotteria dei rigori.

Parte la Costa d’Avorio. Aka realizza. E poi Baffoe, e poi Hobou e così a scorrere. Si arriva ai cinque rigori per parte con un solo errore a testa e si prosegue ad oltranza. La serie è lunghissima, estenuante. Non sbaglia più nessuno, tanto che tutti i ventidue effettivi arrivano a calciare almeno una volta dal dischetto.

È la prima volta che accade una cosa del genere, in una grande finale internazionale.

A circa mezz’ora di distanza dal primo tiro, si deve ripresentare Aka sul dischetto. E segna. Poi tocca a Baffoe e questa volta il ghanese si fa ipnotizzare da quel venticinquenne guardiano del Raja Casablanca.

Il sole non si è dimenticato della Costa d’Avorio che vince 11-10 e alza al cielo, per la prima volta nella sua storia, la coppa.