Settembre 2009.

Roger Lukaku ha 43 anni ma occasionalmente gioca ancora a calcio nel Sant-Agatha Berchem tra i veterani della comunità congolese di Bruxelles contro quelli di Bergen, Liegi, Anversa o della stessa Bruxelles.

Ha iniziato la sua carriera in Belgio all’età di 23 anni e l’ha terminata solo l’anno scorso.

«Non gioco più da centrocampista centrale proiettato in attacco perché lì davanti devi sempre mostrare creatività per fare la differenza, per scavalcare l’avversario, e alla mia età questo è un po’ forzato. Avevo la tecnica, ma mi è sempre mancata la velocità».

Di padre in figlio

D: Cosa riconosci di te in lui?

RL: Mi riconosco nel gol che ha segnato contro lo Zulte Waregem. È così che ho segnato spesso. Boussoufa si fa avanti e si tuffa verso il primo palo per deviare un po’ il pallone. Quelle sono palle molto difficili per il portiere. Ho lavorato anni per padroneggiarle. Per questo gli dico sempre «ogni attaccante che taglia la traiettoria ha il novanta per cento di possibilità di segnare. È ancora giovane, imparerà con il tempo. Anche nel vincere i duelli testa a testa.

Io ero molto forte a colpire di testa ed ho vinto gran parte dei miei duelli con quel fondamentale; ma prima di riuscirci, ci ho lavorato molto. La statura di Romelu è un’arma a doppio taglio: se sei grande, pensi di poter colpire la palla senza saltare. Ha bisogno di lavorare sul tempismo».

D: Hai visto il debutto di Romelu dal vivo nel test match con lo Standard?

RL: No, ci ha fatto una sorpresa. Eravamo a casa e abbiamo ricevuto una telefonata dove Romelu diceva che probabilmente sarebbe stato nella formazione di partenza. Poi abbiamo scoperto che era effettivamente così e quindi abbiamo iniziato a chiamare in giro chiunque per ottenere i biglietti. Conosco ancora alcune persone allo Standard. Ma tutti avevano regalato i loro biglietti. Mi avevano offerto un posto, dove risiedevano gli osservatori dello Standard. Ma ho rifiutato (ride).

Mia moglie ha seguito la partita allo stadio dell’Anderlecht su un grande schermo e io sono andato a giocare a calcio a Berchem, quindi ho guardato la partita dopo in TV a casa. Ero super stressato. Ha giocato senza la dovuta malizia, ma gli ho già detto che nell’Anderlecht devi essere sempre il migliore e provarci sempre. Allora le persone impareranno a rispettarlo di più. 

D: A Romelu è stato chiesto nelle sue prime interviste chi fossero i suoi esempi, e lui ha dato cinque nomi: Drogba, Anelka, Henry, Ibrahimovic e Adriano. Il tuo nome non era tra questi. Deve essere deludente per un padre con un passato calcistico, giusto?

RL: Gli ho detto chiaramente che, per lo sviluppo della sua carriera, non dovrebbe prendere me come esempio perché finirebbe per giocare sempre in Belgio. Deve puntare più in alto.

Posso fargli notare delle cose, lo aiuterò, ma non deve seguire il mio esempio, altrimenti non funzionerà. Con un buon agente avrei potuto giocare a calcio allo Standard e se avessi giocato lì, all’Anderlecht o al Bruges dopo sarei potuto andare in Germania, Inghilterra o in un altro grande paese perché avevo le qualità.

Il Belgio

D: Uno dei tuoi allenatori – Stany Gzil – che hai avuto all’Ekeren ha detto di te: ai suoi tempi era in grado di giocare a calcio come attaccante puro perché aveva molta qualità.

RL: Sì, non ero il peggiore della squadra (ride). Ero un ribelle e giocavo in un piccolo club. Era il tempo di Wilmots e Goossens allo Standard, Eijkelkamp e Amokachi al Bruges e Nilis, Bosman e Degryse all’Anderlecht. Grandi calciatori. Ricordo il primo allenamento all’Ekeren al termine del quale c’erano due giocatori che stavano per vomitare tanto era duro.

D: A causa della tua statura, avevi qualità specifiche che ogni allenatore voleva nel suo attacco. Con un attaccante veloce creavate una coppia complementare.

RL: È così che ho giocato spesso. A Seraing con Edmilson o Wamberto al mio fianco. A Ekeren c’erano Tahamata, Hofmans o Radzinski. Al Boom, Wurrie. Ero un perno, intercettavo palla e la smistavo e gli altri ne traevano vantaggio… anche se i difensori spesso mi toglievano la sfera dai piedi.

Romelu è un calciatore migliore. Va a destra e a sinistra cercando e non aspettando. Partecipa di più al gioco. Quando viene lanciato è anche molto, molto veloce e può facilmente lasciare dietro il difensore di due o tre metri.

D: Con chi ti trovavi meglio?

RL: Edmilson, a Seraing. Sapeva fare assist e gol. Anche Wamberto non era male. Ma chi mi ha impressionato di più è stato Gunther Hofmans ad Ekeren. Non era molto conosciuto, ma ogni anno segnava quindici o sedici reti. Radzinski era spesso in panchina perché giocava Tahamata. Si è unito alla squadra solo quando sono partito per la Turchia.

D: Quanto è stato difficile il tuo primo impatto con Boom?

RL: Mi ci sono voluti due anni per adattarmi. Ero il più grande giocatore del Congo, giocavo davanti a 60mila persone ogni settimana. A Boom non c’era quasi nessuno (ride). La sfortuna è stata che era inverno, ed ero solo, mentre la mia famiglia viveva ancora in Congo.

Ho giocato nelle riserve per un anno e mezzo. È stata dura. A un certo punto ho anche chiesto di tornare in Africa. Avrei potuto davvero andare in Costa d’Avorio a giocare a calcio per la stessa squadra di Rashid Yekini. Ma il presidente aveva pagato parecchio per me e non voleva lasciarmi andare.

D: E poi hai giocato un rinomato playoff.

RL: Quell’anno era un “dentro o fuori”. Ma è andata molto bene in finale. Meno male.

LUKAKU

La Turchia

D: Sei andato a Gençlerbirligi. Quella è stata l’unica volta che hai giocato a calcio fuori dal Belgio.

RL: Sono partito da solo, mia moglie e i miei figli sono rimasti in Belgio. Ci allenavamo solo una volta alla sera, quindi ho deciso di farlo io, in autonomia, durante la giornata. Alla fine mi sono scoraggiato.

Tuttavia, ho giocato quasi tutta la stagione tranne le ultime partite. Non volevo più restare. Quello che avevo vissuto quando sono venuto in Belgio per la prima volta, l’ho rivissuto lì.

Il ritorno

D: Quando sei tornato dalla Turchia e sei andato a giocare per il Malines eri spesso infortunato. Sembrava essere un problema serio perché hai consultato il tuo medico personale e fisioterapisti fuori dal club, motivo per cui hanno deciso di interrompere il tuo contratto.

RL: Stavano cercando una scusa.

Ogni martedì avevamo l’allenamento sulla parte tecnica e il giorno dopo ho sempre sentito dolore. I miei muscoli non volevano proprio andare. Quando l’ho segnalato, mi è stato detto che non volevo più lavorare e non ero più fresco.

Solo quando le cose vanno bene ti senti dire le cose più belle del mondo. Ecco perché dico ai miei figli che sono fortunati che io ci sia e gli abbia insegnato ad affrontare anche le difficoltà. Anche io ho commesso degli errori nella mia carriera. Quando sono partito per la Turchia ho firmato per tre anni ma sono venuto via prima perché non mi piaceva l’ambiente. Oggi avrei onorato quel contratto prima di ritirarmi dal calcio, senza pensieri. Avrei guadagnato abbastanza. Ma volevo tornare in Belgio dopo un anno. Al Malines non ha funzionato ma hanno comunque giocato la finale della Coppa nazionale e l’Ostenda, dove sono andato dopo, è retrocessa. Van Wijk era l’allenatore in quel momento, ma non gli fu permesso di lavorare e lo sostituirono con Jean Marie Pfaff.

Nulla da dire su di lui, ma è quello che è; anche se per avere un litigio con lui dovevi davvero aver toccato il fondo. Era troppo amichevole.

Il razzismo

D: Pfaff, però, non è sempre stato così amichevole: un uomo di colore che lavorava nel giardino dell’hotel si è preso un calcio al sedere e anche un commento dispregiativo.

RL: Ho sentito ma non credo sia un razzista. Se lo ha fatto o detto non lo so, ma personalmente non credo.

D: Sei stato meno indulgente nei confronti di un tifoso che ti rimproverava quando giocavi al KGR Katelijne. Voleva scappare, ma tu hai scavalcato i pannelli pubblicitari dopo la partita e lo hai raggiunto. Tutti al club sono rimasti sorpresi dalla tua reazione.

RL: Sì, ma la mia reazione era una vera messa in scena (ride). Non credo che insulterà mai più i neri.

D: In ogni caso, non l’hanno più visto dopo…

RL: Normalmente non faccio queste cose, ma questo tifoso era andato troppo oltre. Suo figlio ha giocato contro di me in quella partita. A ogni duello il padre mi insultava. Suo figlio mi diceva di non ascoltarlo. Ma non sapevo fosse suo padre. Allora mi sono detto: «me ne occuperò dopo la partita. E l’ho fatto».

D: Hai avuto molto a che fare con il razzismo nella tua carriera?

RL: Non parlerò dei tifosi che mi hanno urlato contro o mi hanno fatto qualcosa. Questa situazione esiste ovunque. Anche nel calcio di oggi e questo non lo capisco.

La scorsa settimana ha giocato il nostro giovane Jordan a Lokeren ed è stato insultato un gruppo di genitori. Ma quello che mi ha scioccato di più è che l’allenatore deve aver sentito ogni cosa così come l’arbitro che però non ha preso provvedimenti. È li che inizia il problema.

L’arbitro deve fermare il match e i genitori devono andarsene altrimenti il loro figlio crescerà e insulterà anche gli altri. Mio figlio aveva risposto per le rime e l’allenatore gli aveva detto di calmarsi. Come puoi stare sereno in una situazione del genere? Come puoi mantenere la calma?

Sua moglie Adolphine lo interrompe: «È successo anche un’altra volta in una partita con l’under 17. Hanno gridato di nuovo queste cose in olandese e non sapevano che avevo capito finché non mi sono voltata e ho iniziato a parlare con loro in olandese, lasciandoli di stucco».

RL: Era contro il Gent. Aveva segnato quattro reti e si è voltato anche lui ed ha risposto (ride), Gli ha risposto che lui è nato in Belgio.

RL: Quando mio figlio mi ha raccontato cosa è successo a Lokeren, mi si è spezzato il cuore. Se vedrò la partita di ritorno, glielo farò presente di non dimenticare anche se non dovessero insultarlo più. Perché certe cose non devi permetterle fin da giovane.

Ai tempi sono stato faccia a faccia con Karagiannis, a Seraing, durante l’allenamento perché aveva “riso” di me. Con me non lo fai, gli dissi. Non ci provare più.

La disciplina

D: Quando l’Ostenda giocava in trasferta in seconda divisione, a volte vi lasciavano per strada con l’autobus, mentre non hai avuto problemi ad Ath – squadra di provincia – a dover fare un sacco per allenarti. Da dove viene questa volontà di intenzioni?

RL: Le relazioni umane a volte sono più importanti del denaro. In club come Malines o Ostenda ho sentito poco calore e poca comunicazione. Questa è la differenza. Ecco perché anche i miei figli giocano all’Anderlecht: ho potuto parlare a lungo con loro perché erano aperti al confronto e questo ha favorito la scelta fatta.

All’Ath è stato lo stesso: ho incontrato di nuovo Georges Heylens del Seraing con il quale mi è sempre piaciuto lavorare. Abbiamo vissuto anche momenti difficili, ma lui mi ha fatto capire tante cose. I giovani avevano rispetto per i più grandi, ed è così che siamo diventati professionisti veri; quella è diventata una famiglia, ma dopo una stagione il club ha avuto problemi finanziari purtroppo.

D: Hai sempre fatto presente come anche nei club minori ci fosse sempre molta serietà riguardo alla impostazione della mentalità dei giovani che venivano prevalentemente per divertirsi, e questo a volte portava a delle frizioni.

RL: Nelle partite delle categorie minori non basi la preparazione delle partite solo sulla tecnica, ma comunque giochi per vincere. Il divertimento passa in secondo piano e questa leggerezza mi infastidisce un pò.

Rimpianti

D: Pensi che sia una sconfitta il fatto che tu non abbia mai giocato per un top team?

RL: Dopo Boom sarei dovuto andare allo Standard Liegi invece che a Seraing.

Tolosa, Lens e Metz mi corteggiavano, ma nulla si è concretizzato e alla fine avrei dovuto andare allo Standard. Ma la scelta era tra me e Aurelio Vidmar.

Non molto tempo fa ho saputo che il Presidente dello Standard ha insistito perché venisse Vidmar. Il mio agente dell’epoca, Paul Stefani, mi assicurò che tutto era stato concordato con lo Standard… e invece sono finito a Seraing. Avevano pagato a Boom un sacco di soldi ma, Seraing o Standard non era proprio la stessa cosa. Uno era un buon club da centro classifica mentre l’altro un grande club. Se fossi rimasto un anno in più a Seraing sarei comunque finito allo Standard dopo il loro fallimento come successe a Wamberto ed Edmilson. Ma ero già a Ekeren in quel momento.

D: Non hai davvero avuto una partita d’addio ufficiale a causa di infortuni. Non meritavi un finale migliore per la tua carriera?

RL: Oh, non è importante. Non ci ho mai pensato. Se vivi con il rimpianto non andrai mai avanti. Quello che mi ha ferito di più è che il Katelijne è retrocesso in terza divisione proprio quell’anno ed io, essendo infortunato, non sono più potuto tornare.

Dopo la carriera da calciatore

D: Ma come hai fatto a giocare fino a 40 anni?

RL: Per noia. Non avevo altro da fare. Adesso sono impegnato con i miei figli, ma i primi tempi le domeniche erano difficili da trascorrere. Non potevo stare a casa, dovevo giocare perché ce l’ho dentro fin da ragazzo il giocare la domenica. Ci sono cresciuto. Ora ho un abbonamento ad una palestra fitness ma non è la stessa cosa.

D: I vecchi soldati non muoiono mai, semplicemente “svaniscono”.

RL: Ma sto tornando al mondo del calcio. Cercherò di lavorare come mediatore di giocatori. Stiamo per fondare un club in Congo e una volta ottenuta la licenza cercherò di coniugare le due cose. Gli errori che ho commesso nella mia carriera ora mi rendono più forte anche per sostenere i miei figli.

D: Come riempi le tue giornate?

RL: Seguo i miei figli. Al momento faccio solo quello. Relativamente a Romelu, non posso permettermi che sbagli strada e ciò rende difficile per me impegnarmi in qualsiasi altra. Siamo in una fase dove tutto deve essere ben organizzato e non approssimativo. E questa fase deve rimanere tale per un pò. A poco a poco poi otterrà la sua libertà.

D: George Heylens, il tuo allenatore a Seraing, ha detto: «Il modo in cui Roger ora tratta con i suoi figli è come era lui stesso ovvero sempre corretto, sempre pronto ad aiutare gli altri. Una persona che ha goduto di un’educazione, con un occhio attento per l’umanità».

RL: Sono sempre stato così. È la mia natura. Di fronte ai miei figli, non oso pensare al fallimento. L’ho detto anche a Romelu. Nella fase in cui siamo arrivati, non possiamo più permetterci di fallire. Ecco perché uniamo tutte le nostre forze per garantire che i nostri figli si sentano bene nella propria pelle e mantengano la testa concentrata. Il destino è imprevedibile, non sai mai cosa può succedere, ma facciamo del nostro meglio per mantenerli sulla retta via.

LUKAKU